FACTORY COMPAGNIA TRANSADRIATICA
Il Misantropo

28 GENNAIO 2020 ORE 21,30 AL 28 GENNAIO 2020

Martedì 28 gennaio 2020 – ore 21.30
FACTORY COMPAGNIA
TRANSADRIATICA
Il Misantropo

di Molière
traduzione e adattamento di Francesco Niccolini
regia di Tonio De Nitto

con Sara Bevilacqua, Dario Cadei, Ilaria Carlucci, Ippolito Chiarello, Angela De Gaetano, Franco Ferrante, Luca Pastore, Fabio Tinella
Assistente alla regia Daniele Guarini

Scene Porziana Catalano e Iole Cilento
Costruzioni Damiano Pastoressa
Un ringraziamento speciale e Angelo Linzalata
Costumi Lapi Lou
Luci Davide Arsenio
Musiche originali Paolo Coletta
Tecnici di compagnia Davide Arsenio, Marco Oliani
sarte Maria Rosaria Rapanà, Ornella Cassinari
Parrucche Elettra Ghioni, Lapi Lou
produzione Factory compagnia transadriatica
Accademia perduta/Romagna teatri

Dopo le esplorazioni shakespeariane, mi avvicino a Molière e provo a raccontare la società in cui viviamo che stranamente non sembra molto diversa da allora. Il Misantropo, quanto mai attuale, è un testo che dopo tanta civetteria, convenzioni e barocchismi dorati, arriva stretto come un nodo alla gola: sembra un quadro perfetto del momento che stiamo vivendo, nella disillusione verso un mondo non meritocratico, dove la soluzione è sempre nel compromesso e spesso nella totale evasione dalla legalità, dove la menzogna trova strade più facili e tollerabili della verità.
Sentirsi un extraterrestre perché non allineato, uno stupido perché onesto, un reietto perché non interessato al clamore del mondo, un algido, un cinico, un fissato, un inquieto, l’attore di un vecchio teatrino démodé.
Alceste non respinge ma è respinto da una società in cui non si riconosce, da un amore incapace di scegliere, da processi in cui è chiamato in ballo senza alcun motivo, non uno contro tutti, ma tutti contro uno.
Proseguo con Il Misantropo il mio personale racconto degli ultimi, siano essi bisbetici, anatroccoli o misantropi appunto: lo faccio con la compagnia d’attori con cui in questi anni abbiamo costruito assieme un percorso, con generosità, talento, rigore, utopie, disillusioni.
Tonio De Nitto

All’anagrafe si chiamava Jean-Baptiste Poquelin, ma come si fa a diventare una stella di prima grandezza del teatro di tutti i tempi con un nome simile? Aveva le idee chiare, quel giovanotto, e si scelse un bellissimo nome d’arte e una biografia da star. Non c’è dubbio che il capolavoro di Molière sia la sua vita.
Figlio di un uomo del popolo, un umile tappezziere di Parigi, Jean-Baptiste si innamora di un mestiere infame e di una compagnia di comici dell’arte italiani: con quel mestiere infame diventerà così famoso e amato che i suoi figli avranno il re di Francia come padrino al battesimo, ma così odiato che nessun medico, nessun prete, nessuno di nessuno vorrà intervenire quando starà tanto male da dover interrompere l’ultima replica de “Il malato immaginario” per morire a casa sua, senza cure e senza estrema unzione. Per una settimana, sua moglie, la giovane avvenente e capricciosa Armande, non riuscì nemmeno a trovare dove seppellirlo, dato che nessun cimitero della città voleva ospitarlo e l’arcivescovo di Parigi aveva espressamente indicato di buttarlo in un fosso qualunque delle sterminate campagne intorno alla capitale: ovunque la terra non fosse consacrata, in odio a Dio, alla chiesa, ai medici, agli aristocratici e a tutte le categorie di ipocriti approfittatori nepotisti lobbisti, venduti comprati e corrotti dell’intera città. Curioso. Molière era il mago del teatro comico e burlesco, ma avrebbe voluto essere un grande tragediografo: ogni volta però che si misurava con la tragedia finiva male, era un fallimento colossale. Una sola tragedia gli venne bene: la sua vita. Chi ha visto il film di Arianne Mnouchkine o ha letto la biografia scritta da Bulgakov, sa di cosa parlo.
Dentro la sua sterminata (e un po’ invecchiata) produzione comica, c’è un testo che non ha paura dei secoli che passano, e che, pur con un livore comico strepitoso, assomiglia alla sua tragedia personale e – al tempo stesso – al nostro mondo contemporaneo, alla nostra misera Italietta marcia, putrefatta e vittima degli stessi nemici di Molière: ipocriti approfittatori nepotisti lobbisti, venduti comprati e corrotti.
Questa capolavoro fuori dal tempo è “Il Misantropo”, storia così tragica da diventar ridicola.
Sciascia l’avrebbe definita una storia semplice. Alceste è un uomo integro, di sicuro un po’ rigido: non vuole mentire e non vuole essere accomodante in cambio di favori e falsi complimenti dalla corte di nani e ballerine che lo circonda, e che vive di menzogne, spintarelle, amicizie di comodo, leccate di culo, padrini lobby e partiti. Come se questa etica ferrea non gli creasse abbastanza problemi, soffre pure la disgrazia di essere perdutamente innamorato della donna più bella, corteggiata e capricciosa della città, Selimene la velenosa: giovane e bella, con un milione di uomini intorno che appena lei apre bocca, respira, sospira o prende un tè, le piombano intorno, pronti a gridarle il loro infinito piacere di starle accanto, sfiorarla e corteggiarla. Bulimica di adoratori, Selimene non si accontenta dell’amore sincero di Alceste: vuole la devozione di tutti. E Alceste, tutto ciò proprio non lo sopporta.
Questo è il punto di partenza e di arrivo di un “innamorato atrabiliare”, come recita il sottotitolo: un nevrastenico, rissoso irascibile spirito libero che non vuole scendere a patti con nessuno e, come il folle Caligola, pretende che alle parole corrisponda il loro esatto significato e che non siano solo un vuoto gioco di potere, favori e ipocrisie. Una rissa continua, insomma, e una sconfitta dietro l’altra: Alceste non può che perdere, è evidente dal primo rigo.
Scontento, irritabile, solitario, ha tutti contro. Tutti, tranne due solidi amici, molto diversi tra di loro: una ragazza serena, inutilmente innamorata di lui, e Filinto, il personaggio più misterioso e complesso di questa storia. Ha l’aria del bonaccione, colpo al cerchio e colpo alla botte, perfettamente consapevole del mondaccio in cui vive, sufficientemente lucido per sopravvivere senza illusioni ma senza patirne le conseguenze, con una dose di ipocrisia moderata e condita dal sorriso amaro di chi sa che qualche compromesso è indispensabile. Per questo Alceste si infuria con lui, ma tutto sommato i due sono amici, per quanto Alceste lo accusi per tutto il primo atto delle peggiori abiezioni. Ma Filinto sorride e non lo abbandona mai.
In questo mondo di falsi amici tutto è pubblica schermaglia, carezze avvelenate e coltellate nascoste sotto i sorrisi: ogni complimento ha un secondo fine e serve a ottenere qualcosa, che sia un favore da nulla, un posto di lavoro o un trattamento speciale al prossimo concorso. A mano a mano che sprofondiamo in questo universo, è evidente che siamo finiti molto vicini all’assurdo mondo di Joseph K. e del “Processo” di Kafka: anche qui il nostro povero stupido ingenuo autolesionista Alceste subisce un misterioso processo. E tutti lo avvertono, proprio come fanno con Joseph K.: se non interviene secondo le vigenti regole della giustizia, il processo lui lo perderà, anche se non ha commesso nulla. Ma non è la colpa, il problema: l’inaccettabile errore è non farsi amici i giudici, non frequentare le loro case, non sorridere prostrato e compiacente, non diventare parte del popolo adorante e falso.
E dunque cosa può accadere al severo Alceste se non coprirsi di ridicolo e uscire tristemente sconfitto da ogni scontro? E purtroppo non c’è aggettivo più adeguato di ridicolo. Tutti ridono di lui, anche noi, perché la sua onestà non ha senso e porta con sé un peso totalmente inutile e ingiustificato, data la legalizzata falsità del tutto. Forse per questo Alceste mi piace tanto: don Chisciotte francese, spirito libero, capace di grande amore e di scelte difficili pur senza essere un uomo perfetto. Anzi. Esattamente come Molière, drammaturgo commediografo e attore, casinaro, pasticcione, innamorato geloso, ipocondriaco, malinconico e nevrastenico, ma come nessun altro capace di dipingere la ferocia del suo e del nostro tempo. Capace di perdere tutte le battaglie, ma sempre a testa alta. Per quel poco che possa servire, camminare a testa alta, in un mondo in cui tutti – la testa – la tengono bassa, per leccar scarpe di piccoli viscidi feudatari o per mettere il milionesimo like sul loro telefonino.
Francesco Niccolini

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